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PRIMO GIORNO (DIETRO IL PORTONE DI BUONCAMMINO) DA VOLONTARIO di Mario Barbarossa

7 maggio 2015 Nessun Commento

PRIMO GIORNO DA VOLONTARIO

Avevo da molto tempo un pensiero: dedicare una parte delle mie giornate al volontariato. Desideravo però essere attivamente impegnato a conoscere un mondo diverso dal mio. Scoprire realtà dalle quali il mio passato è stato, per fortuna, costantemente distante.

A destare la mia attenzione era la vita carceraria. Mi avevano incuriosito tanti articoli letti sulla carta stampata. Le inchieste ma anche le dichiarazioni di esponenti politici di tutti i colori che, forse per avere una qualche visibilità sui media, sostengono la necessità di sanare la drammatica situazione delle carceri italiane. Il più delle volte però quelle affermazioni si rivelano solo sempre vane chiacchiere giacché si ripetono sui mass media notizie su tentativi di suicidio e denunce sul sovraffollamento detentivo. Si è rafforzato via via in me il convincimento di vedere con i miei occhi, sentire con le mie orecchie quale fosse la realtà e poter contribuire ad alleviare il disagio di quanti vivono la detenzione.

Andato in pensione mi sono messo alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarmi a soddisfare quella curiosità che era diventata un’esigenza, una scelta. Volevo poter utilizzare parte del mio tempo libero per fare concretamente qualcosa per i cittadini ristretti in carcere. Ho quindi avuto modo di conoscere l’associazione Socialismo Diritti Riforme presieduta da Maria Grazia Caligaris e coordinata dal segretario Gianni Massa. Ho dunque partecipato all’assemblea annuale dei soci e ho capito che le finalità di quel volontariato laico corrispondevano alle mie esigenze.

Trascorso il periodo necessario all’autorizzazione del mio permesso di accedere alla struttura carceraria finalmente è arrivato il momento del mio battesimo. Il 31 Marzo 2014 eccomi davanti al civico 19 del viale Buoncammino.  Accompagnato dalla Presidente, ho varcato per la prima volta la prima porta metallica, ho ottenuto in Prima Porta il tesserino di visitatore che ho appeso alla giacca e ho superato un’altra pesante porta metallica, comandata come la prima elettricamente. All’interno, un piccolo piazzale e l’articolo 27 della Costituzione scritto sul muro da cui si dipartono due file di scale che conducono alla struttura. Da subito percepisco un odore penetrante che non saprei definire.

Superata la prima rampa, abbiamo avuto accesso alla Palazzina dove si trovano gli uffici amministrativi e la stanza del Direttore. Ho avuto modo quindi di conoscere il Direttore, il gruppo degli Educatori e accedere agli spazi dove venivano depositate le richieste di colloqui. Usciti dall’area amministrativa, ho varcato un altro portale metallico comandato a distanza, la seconda porta, e ho avuto accesso alla zona destinata alla detenzione. Oltre il nuovo varco un piccolo piazzale con al centro una postazione dotata di vetri certamente antisfondamento con dentro addetti all’apertura e chiusura dei cancelli metallici per l’accesso ai bracci, destro e sinistro. Subito sulla destra, l’Ufficio Matricola dove vengono condotti coloro che vengono arrestati per effettuare le pratiche di ingresso e di uscita al termine della pena e la stanza del responsabile della sicurezza. Più avanti, sempre nel braccio destro, la sala colloqui destinata agli avvocati ed ai volontari per gli incontri con i detenuti. Superato l’ultimo impedimento finalmente possiamo iniziare il nostro lavoro. A darmi ancora il benvenuto è quello strano odore molto più intenso, che però ancora non riesco a definire.

La prima persona che vedo, mi porta subito ad una dimensione che fino ad oggi conoscevo solo per sentito dire, una prova vivente di emarginazione. E’ una giovanissima di appena 24 anni, Chiara, piccoletta, il corpo segnato da innumerevoli piercing e tatuaggi, condannata per una serie di rapine.  Ha rubato di tutto vini, liquori, profumi, salumi. La sua storia è emblematica, una famiglia disadattata, vita di vagabondaggio, utilizzo di droghe che però è determinata a non utilizzare più già da tempo, spesso una panchina come letto. Chiara si apre, ci parla della sua relazione omosessuale con una compagna che però l’ha lasciata. Scoppia in lacrime e ci chiede di contattarla. Piange Chiara, le porgo un fazzoletto e sono senza parole. Lei continua il suo sfogo e ci parla delle ingiustizie che subisce dalle compagne di cella e dal personale, mantenendo però una sorta di atteggiamento omertoso senza specificare nomi e genere di torti subiti.

Io intanto rifletto. Ascolto e rifletto, cerco assieme a Maria Grazia le parole giuste per confortarla e quando terminiamo il colloquio sono davvero sconcertato e mi domando: perché Francesca vive questa situazione? E’ dotata di un’intelligenza vivace, e quando non utilizza espressioni gergali parla un ottimo italiano. Chi è responsabile? La sua famiglia? Troppo facile questa risposta, qualcuno doveva accorgersi della sua fragilità, forse un insegnante doveva capire il suo disagio e segnalarlo? E mi domando ancora: ma cosa ci fa in carcere? Nessuno si prenderà davvero cura di lei, sconterà la sua pena e poi, una volta fuori? Ma tutte queste domande non hanno risposta.

Per cercare di spiegare a chi legge l’inumano stato di disagio della vita carceraria continuerò ora a raccontare altre storie, da tutte le quali ho appreso qualcosa che mi indigna e che dovrebbe indignare tutti noi, e cioè che in tutti i colloqui che ho avuto con questi cittadini privati della libertà non ho mai visto un segnale di speranza, ma solo rassegnazione. Provate ad immaginare la vostra vita che lentamente scorre, una giornata, 24 ore, ne trascorri 22 rinchiuso in una cella con compagnie a volte accettabili ma il più delle volte incompatibili, in 4 o 6 persone in pochi metri quadrati. Provate ad immaginare di diventare un numero, di dover fare sempre una “domandina” scritta all’amministrazione per qualunque richiesta che esca da quanto stabilito dal regolamento, domandina per avere un colloquio con noi, domandina per avere un libro, domandina per avere un colloquio con l’educatore, domandina per una visita medica, domandina per una penna e carta per scrivere……….

Un’altra storia fa capire un altro grande problema, quello della salute in carcere: è la storia di Luisa, che necessita di un intervento chirurgico ma lo ha diverse volte rifiutato perché é preoccupata del decorso postoperatorio, che dovrà trascorrere in carcere confidando solo sulla bontà delle compagne di cella. Provate ad immedesimarvi in questa situazione.

E poi Federico, 4 ernie alla colonna vertebrale oltre a seri problemi cardiaci, e ancora Giuseppe, in attesa da 3 anni di un intervento chirurgico ai tendini di entrambe le mani, o Filippo, che per diverse volte non è potuto andare ad una visita di controllo perché non era disponibile una scorta per accompagnarlo, o ancora un altro Luigi, una gamba artificiale che si ripara da solo, e cito ancora Marco, un giovane che è sotto trattamento psichiatrico, quasi non riesce a parlare visibilmente sotto massicce dosi di psicofarmaci, unica forse terapia possibile.

Altra storia. Quella di Paola, che non richiede un permesso familiare perché sa bene che dopo alcuni giorni dovrà nuovamente distaccarsi dalla figlia di 7 anni e quindi preferisce non uscire. Immaginate il dolore di questa mamma. Anche lei piange, è disperata.

Dopo queste riflessioni mi domando a cosa serva che la Costituzione Italiana nel 3° comma dell’art. 27 reciti testualmente “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Personalmente non ho visto o sentito nulla che possa “rieducare”. Ma forse è solo l’impressione del primo giorno. Sono certo che in seguito vedrò numerose attività culturali, corsi di formazione professionale, momenti di dibattito con la partecipazione dei detenuti, contributi da parte delle amministrazioni locali. Basta soltanto aspettare un po’…..

 

 

Mario Barbarossa

Volontario associazione “Socialismo Diritti Riforme”.

Cagliari, 7 maggio 2015

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