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CASO MARIO TRUDU – “Fine pena mai, niente ritorno in Sardegna” di Maria Grazia Caligaris – pubblicato su “Sardegna Quotidiano”

22 luglio 2013 Nessun Commento

           Negare a un detenuto l’espiazione nella sua terra della parte conclusiva della pena dopo 33 anni di reclusione ininterrotta fuori dall’isola, pone seri quesiti sulla finalità della privazione della libertà. Il rifiuto, peraltro giustificato con motivazioni che appaiano discutibili, si configura come un atto vendicativo da parte dello Stato soprattutto perché la persona in questione ha un “fine pena mai”. L’esempio a cui ci riferiamo è quello di Mario Trudu, arzanese, 64 anni. Detenuto a Spoleto, l’uomo, in carcere dal 1979, chiede da anni di poter tornare in Sardegna anche perché non può fare regolari colloqui con i familiari per la distanza e le loro condizioni fisiche ed economiche.

            Il rifiuto di concedere il trasferimento a un uomo ormai anziano induce quindi a riflettere. Di per sé l’adozione dell’ergastolo, quale provvedimento riparativo di una colpa grave, aveva destato un acceso dibattito a partire dai Padri Costituenti. Furono soprattutto coloro che avevano patito la privazione della libertà durante il Fascismo ad assumere una posizione particolarmente critica. Le problematiche erano legate soprattutto alla coerenza con la Carta fondamentale. Risultava e risulta infatti impossibile conciliare una pena così pesante con l’art.27 della Costituzione laddove prescrive l’umanità della pena inflitta. La disumanità dell’ergastolo consiste proprio nella negazione perpetua della libertà, espressione propria dell’essere umano. Non solo, risulta altresì in contrasto con l’altro principio costituzionale quello secondo il quale “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” e quindi alla sua riabilitazione sociale. Un’esclusione dalla vita comune per sempre è in contraddizione con un progetto finalizzato alla sua inclusione. Lo ha ribadito di fatto Papa Francesco che ha abolito l’ergastolo per la Città del Vaticano,

            Il quadro normativo in Italia si è invece complicato creando un’altra forma di “fine pena mai” che non lascia alcuna possibilità di recupero nella prospettiva della libertà. E’ l’”ergastolo ostativo”, una sanzione aggiuntiva, introdotta nel 1992 dopo le stragi di mafia, estesa ai sequestri di persona. Ha avuto carattere retroattivo coinvolgendo anche quei detenuti che, in carcere da decenni, pur avendo concluso l’iter giudiziario sono stati esclusi da qualunque premialità prevista dalla legge Gozzini. Per eliminare la sanzione ostativa è indispensabile collaborare con la giustizia in modo da contribuire fattivamente a sgominare le organizzazioni criminali. Per molti detenuti, dopo tanti anni trascorsi dal reato, è pressoché impossibile, anche volendo, collaborare. Un’ingiustizia, frutto dell’emergenza criminalità, che il Parlamento deve al più presto abolire.

           La vicenda di Mario Trudu però è paradossale per l’assurdo mancato rispetto della territorialità della pena. L’ergastolano di Arzana, che ha riconosciuto le proprie responsabilità e partecipa alle iniziative rieducative, non chiede la libertà e neppure di avere un trattamento di favore. La sua domanda è semplicemente quella di tornare in Sardegna, in una struttura penitenziaria dell’isola. Vorrebbe poter svolgere qualche colloquio con i suoi familiari e rivedere le sorelle, una in particolare che per ragioni di salute non può effettuare viaggi. Sono trascorsi 9 anni dal loro ultimo colloquio. Ha vissuto 33 anni in carcere dove ha partecipato attivamente ai programmi riabilitativi. Ha ottenuto il diploma dell’Istituto d’Arte e contribuito con ricerche a salvaguardare la memoria architettonica di Spoleto. Negargli ancora il ritorno in Sardegna sembra proprio una pena aggiuntiva immotivata.

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