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GIUSTIZIA PRIVATA: SFIDUCIA NELLE ISTITUZIONI? Un articolo della criminologa Lisa Sole.

28 marzo 2011 Nessun Commento

Ancora oggi in una società evoluta come la nostra è presente il problema della giustizia privata.  

E’ un problema che chiama inevitabilmente in causa la sfiducia nella giustizia ufficiale, nelle istituzioni, le quali sovente non riescono a fornire delle risposte adeguate a quello che è il senso di giustizia dei cittadini.

Il romanzo Sa grutta de sos mortos scritto dal sardo Annino Mele affronta esattamente il delicato tema della giustizia privata, una giustizia che quindi potrebbe essere definita “fai da te”, una giustizia che prescinde dall’intervento dello Stato.

Le vicende narrate nel libro sono perfettamente contestualizzate; infatti, non sono ambientate in una Sardegna genericamente intesa bensì in un paesino della Barbagia.

Pertanto – anche per evitare di scadere in infruttuosi luoghi comuni che certo non ci aiuterebbero in un tentativo di comprensione – occorre domandarsi chi siano i barbaricini e quali siano le loro caratteristiche temperamentali.

Il popolo della Barbagia è certamente un popolo di persone forti, che non si arrende di fronte alle sconfitte e non accetta le imposizioni altrui. Non a caso – non è pleonastico ricordarlo – quando i Romani giunsero in Sardegna, nel 238 a.C., la loro presa di possesso dovette limitarsi per lungo tempo alle sole zone costiere in quanto le popolazioni dell’entroterra riuscirono a restare indomite meritandosi l’appellativo di barbare, da cui barbaricine, da cui Barbagia.

La giustizia privata in Barbagia si identifica sostanzialmente con due fattispecie criminose: i reati contro il patrimonio e quelli contro la persona, reati che nella storia di questa terra tendono a richiamarsi vicendevolmente.

E Annino Mele nel suo romanzo narra proprio come a partire da un reato contro il patrimonio – un furto di capre – si arrivi fatalmente ai reati contro la persona, ai reati di sangue.

La giustizia privata in Barbagia non è certo un’”invenzione” della modernità o della post-modernità, in altri termini le sue origini sono tutt’altro che recenti. Sappiamo con certezza – perché ce lo dicono le fonti scritte – che i reati contro il patrimonio e quelli contro la persona non erano perseguiti in epoca giudicale (XI-XIII sec.) e che, perciò, la giustizia privata era ammessa.

Ma perché la pratica della giustizia privata è giunta sino ai giorni nostri (seppur i casi odierni si verifichino sporadicamente rispetto ad un ventennio fa) a partire da un’epoca tanto remota come quella dei Giudicati? Perché non si è del tutto estinta?

La risposta logica – e lapalissiana – può essere soltanto una: la pratica della giustizia privata continua ad essere tramandata di generazione in generazione. Si tratta di un comportamento doveroso che viene appreso in maniera del tutto naturale, per osmosi, respirando l’aria della casa, della scuola, del paese: un antico regolamento non scritto che costituisce il cuore del cosiddetto Codice Barbaricino – che tanto ha destato l’interesse di Antonio Pigliaru.

Non si può trovare su carta stampata, il Codice Barbaricino. Non è mai stato messo per iscritto – forse i barbaricini non condividono la locuzione latina Verba volant, scripta manent – , non ne hanno mai avuto la necessità: il loro antico e originario regolamento è scritto nel loro DNA.

Secondo il Codice Barbaricino non è un uomo d’onore colui che si sottrae al dovere della vendetta se ha subìto un’offesa.

E’, a questo punto, utile trascendere nel campo della psicologia della devianza, la quale ci insegna che ogni azione – lecita o illecita – presenti scopi e intenzioni: vale a dire che chi agisce è in grado di anticipare mentalmente quelle che saranno le conseguenze delle sue azioni per sé e per gli altri. Pertanto, chi uccide per vendicarsi di un torto subìto sa quali siano i rischi ai quali va incontro (carcere o latitanza). Ma agisce comunque.

Per quale motivo?

Perché il dovere della giustizia privata – o della vendetta, che è lo stesso – è legato ai suoi bisogni psicologici profondi e fondamentali.

Il Codice Barbaricino stabilendo che chi si sottrae alla vendetta non è un uomo d’onore ne decreta il dis-valore sociale. Vale a dire che chi scegliesse di non farsi giustizia da solo perderebbe la stima di tutta la comunità, delle persone per lui significative, verosimilmente verrebbe considerato privo di valori (perché i valori che contano, quelli condivisi dalla comunità di riferimento sono quelli del Codice Barbaricino). E, naturalmente, nessuno può fare a meno dell’accettazione altrui, del riconoscimento altrui in quanto persona degna di rispetto. Lo dice Eric Berne con la sua Analisi Transazionale.

Il tema in oggetto impone molte riflessioni, anche di natura socio-educativa.

E’ infatti il contesto di vita – il contesto socio-culturale – che forgia, che plasma la personalità di ciascuna persona. Di conseguenza, seppur non vi possano mai essere certezze assolute sull’evoluzione personologica di un giovane barbaricino, gli apprendimenti culturali ai quali va incontro nel corso della sua età evolutiva, che subisce e ai quali partecipa, rendono fortemente probabile un suo coinvolgimento futuro in vicende criminose.

Sembra essere questo il destino dei giovani che crescono in Barbagia, in un contesto dove i valori di riferimento non sono e non possono essere accettati e tollerati dallo Stato.

Qualsiasi giovane potrebbe avere un futuro diverso da quello al quale pare predestinato – perché ogni giovane non è una fatalità ma un prodotto storico – e dovrebbe essere dovere dello Stato non negargli questa possibilità intervenendo e prospettando dei progetti educativi e culturali che coinvolgessero necessariamente tutta la comunità barbaricina.

Perché il cambiamento culturale – che in questo caso coinciderebbe col progresso, col miglioramento – che nessuno nega essere particolarmente arduo in un siffatto contesto, deve essere un obiettivo da raggiungere per il bene comune, quello stesso bene comune in nome del quale si pratica la giustizia privata.

In sostanza, il fine dovrebbe restare il medesimo.

A dover essere modificati dovrebbero essere i mezzi per il suo raggiungimento.

 Cagliari, 25 marzo 2011

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