CARCERI: DETENUTO CDT BUONCAMMINO DISPERATO INGHIOTTE 7 PILE
“Disagio incontenibile, disperazione senza limiti, rifiuto del dialogo e un’irrefrenabile crisi autolesionistica. Sono gli stati d’animo che hanno indotto un giovane marocchino rinchiuso nel Centro Diagnostico Terapeutico del carcere di Buoncammino a mettere in atto una serie di gesti autolesionisti culminati nell’assunzione di 7 pile e diversi oggetti di metallo. L’uomo, A. K., che ha compiuto 38 anni lo scorso 15 gennaio, è stato salvato grazie agli Agenti di Polizia Penitenziaria e ai Medici ma un così clamoroso tentativo di rinuncia alla vita non lascia indifferenti”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che ha incontrato il detenuto, sottolineando “la condizione di particolare solitudine in cui vive la maggior parte dei cittadini stranieri extracomunitari dentro le strutture detentive”.
“La disperazione espressa drammaticamente dal detenuto marocchino – sottolinea Caligaris – nasce da una somma di incongruenze di un sistema penitenziario che non solo non rieduca ma allontanando le persone dalle poche relazioni umane e sociali costruite arrivando in Italia, ne annulla ogni possibilità di reinserimento sociale. La territorialità della pena è un principio che deve essere rispettato anche per gli extracomunitari radicati in aree territoriali della Nazione. Nel caso specifico il detenuto, arrestato a Milano, pur in possesso del permesso di soggiorno, non ha una casa né un amico o un parente che possa ospitarlo. A. K. non ha potuto mantenere i rapporti con i conterranei che vivono nel milanese anche perché privo di mezzi economici”.
“Gli è in pratica preclusa la possibilità di lavorare – rileva la presidente di SdR – perché ha necessità da un anno di un intervento chirurgico a un ginocchio ma la sua richiesta giace in una cartella di ospedale in attesa che si liberi qualche posto per un ricovero. L’uso delle stampelle condiziona fortemente la sua possibilità di movimento costringendolo a non uscire mai dalla cella senza contare le fistole che lo torturano costantemente. In queste condizioni e senza alcuna prospettiva la depressione diviene uno stato cronico e la tendenza ad atti autolesionistici una prassi al punto che non c’è parte del suo corpo senza segni evidenti di lacerazioni”.
“Il caso del giovane marocchino – conclude Caligaris – è anche emblematico del fallimento del decreto “svuota carceri”. Pur dovendo scontare una pena residua di 10 mesi e quindi poter avere accesso ai domiciliari, l’uomo non può fruirne perché, al pari di alcune centinai di reclusi sardi, italiani e stranieri, non ha una casa, non ha un reddito, non è in grado di bastare a se stesso. Davanti a situazioni di questo genere è evidente che lo Stato applica principi anticostituzionali e il carcere è solo un contenitore di disperati aspiranti suicidi per necessità”.
Cagliari, 16 febbraio 2011
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